Sedici racconti illustrano con apparente leggerezza e bonomia problemi grandi e piccoli del nostro mondo. Si legge d’un fiato ma lascia da pensare a lungo. Premio “Contursi Terme” 2004 Primo premio “Città di Avellino” 2006
Duplice la chiave di lettura per "Lieto fine": l'una ci presenta sedici racconti gradevoli, molto ben scritti, ognuno con una trama vera, intrigante pur senza colpi di scena mozzafiato, lontani comunque anni luce dalle disquisizioni pseudofilosofiche sempre al confine con l'ovvio che caratterizzano alcuni best sellers. Mi riferisco a rapidissime e vendutissime meteore che, complici anchor men di grido, attraversano pensosi panorami letterari per sparire nel buco nero dell'oblio più totale.
In "Lieto fine" un riflettore illumina la ragazzina, l'africano alla ricerca prima di cibo poi di inserimento, la prostituta, la signora di buona famiglia. Ogni racconto si legge d'un fiato.Ma poi, chiuso il libro, ecco sedimentare quasi a tradimento pensieri, disagi, inquietudini. Quasi mai l'autrice commenta, stigmatizza, leva alta la sua voce per denunce roboanti; lei riferisce, raramente si abbandona ad un aggettivo, ad un'ironia non essenziali. Con voce piana, a volte malinconica, a volte irridente, a volte solo allegra ed ottimista, ci racconta la nostra vita, i nostri drammi. Il disprezzo, il dolore li fa nascere in noi parlando piano, in tono discorsivo. Sembra descrivere, non creare. Ma la funzione maieutica, pur se ammantata di falsa bonomia, balza agli occhi.Una borghese, brutta, bruciata dal sacro fuoco dell'Arte, un'ottantenne malgrado tutto serena, una figlia del microcosmo dei bassi partenopei, le nostre storie. Tutte con un lieto fine che mai è un "e vissero felici e contenti", ma piuttosto un proseguire la vita con una speranza ed una certezza nuove, dopo aver tentato una fuga riuscita, o una ribellione, o magari solo dopo aver preso coscienza di noi stessi.
Ricorrente il tema dell'istituto per minori abbandonati visto in un'ottica totalmente negativa, ripetuto il motivo della totale svalutazione della casalinga in seno alla famiglia, o quello della curiosità piccina e malevola delle cittadine di provincia. In alcune pagine giganteggiano i "sacri valori" del nostro Sud, quelli che ci castrano la volontà, condizionandoci a volte nei pensieri, ancor prima che nei comportamenti.
Alla fine, chiudendo il libro ci si rende conto che tutta la levità delle situazioni, delle figure, è fasulla, pura apparenza. E' una penna feroce quella di Gabriella Pastorino, amara, impietosa, impietosa anche con noi che queste creature sicuramente conosciamo e che preferiamo pilatescamente ignorare.